Credits: Wine News
La viticoltura, per affrontare le sfide del presente e del futuro, deve guardare al passato, e recuperare quei saperi messi in soffitta da una scienza applicata a volte miope ed incapace di tutelare e mettere a frutto le conoscenze che le generazioni passate ci hanno lasciato in eredità, perché i vigneti più belli, longevi e di qualità sono stati sviluppati dai contadini, una categoria che non esiste più, e di cui, invece, oggi ci sarebbe più bisogno che mai. A WineNews, Alberto Antonini, enologo consulente, ma anche produttore, ai quattro angoli del mondo enoico, dall’Italia all’Argentina, dal Cile alla California, dal Sudafrica al Portogallo, dal Canada all’Uruguay, dall’Australia all’Armenia, con un passato tra le griffe più importanti del vino italiano, da Antinori a Frescobaldi, e consulenze nei maggiori territori enoici, da Castello di Bossi a Poggio Landi, da Cantine Settesoli a Dievole, da Concha Y Toro a Garzòn, ad E & J Gallo.
“La vite può essere paragonabile al nostro corpo - spiega Antonini - se è sana ed allenata affronta meglio le situazioni difficili. Un apparato radicale profondo e molto radicato aiuta a superare fenomeni meteorologici come grandine e bombe d’acqua, localizzati, violenti e difficilmente prevedibili. Certo, molto dipende dalle scelte che si fanno in vigna, riscoprendo conoscenze antiche che potrebbero rivelarsi vincenti ancora oggi. Ricordo ad esempio che nel 2017, in Sicilia, un vigneto di Merlot, forzatamente piantato sull’isola, con un impianto di irrigazione a goccia, in enorme sofferenza idrica, mentre accanto a lui il Catarratto, che il caldo siciliano lo conosce bene perché vive lì da migliaia di anni, senza irrigazione stava da Dio. Bisogna riflettere su quanto abbiamo perso in nome di una scienza molto discutibile. Lavoro tanto all’estero, e tutti i vigneti più belli, più vecchi e che fanno maggiore qualità in giro per il mondo, in Italia come in Sud America, ma anche in Armenia e in Rioja, sono stati sviluppati dai contadini”.
Una saggezza, riprende il wine maker, “da recuperare, anche se, purtroppo, è stata devastata dall’illusione della scienza applicata, che invece si è rivelata un flop totale. Per fare delle belle vigne non basta studiare viticultura, non è sufficiente, bisogna studiare tanta botanica, fisiologia vegetale, biochimica, scienza del suolo ed entomologia, così si capisce come funziona un sistema e come crearne di longevi ed equilibrati. La scienza filtrata dalla Bayer e dalla Monsanto - sottolinea Antonini - non è credibile, perché alla base non c’è la necessità di dar vita a vigneti capaci di vivere 120 anni, altrimenti non avrebbero senso di esistere. Questo non vuol dire essere contro la scienza, anzi, è lo strumento che ci permette di capire, però mi domando: quale scienza? È importante capire da dove viene e che obiettivi ha: la scienza che passa attraverso l’industria è pericolosa”.
Un aspetto importante, anch’esso se non perso quantomeno passato in secondo piano, è l’osservazione, “che invece è fondamentale, come ci ricorda Leonardo, che sosteneva che le cose più belle che avesse pensato e realizzato fossero nate osservando ciò che avevo intorno. In agricoltura il danno gigantesco che è stato fatto è quello di aver distrutto la figura dell’agricoltore, ridotto ad essere oggi un piccolo robot che vive con i fogli Excel delle aziende chimiche, ormai disconnesso dalla propria realtà. L’aspetto positivo - sottolinea l’enologo - è che oggi c’è un gran desiderio di fare le cose meglio, in maniera sostenibile, ma il problema grosso è quello di ricostruire una categoria che non esiste più, quella dei contadini bravi, saggi, non esistono più, ci vorrebbero delle scuole pratiche, dove fare apprendistato. La terra, invece, si rigenera in tempi relativamente brevi, tre o quattro anni, anche dove la modernità ha fatto danni epocali, come a Mendoza, in Argentina, dove i vigneti impiantati da chi, come me, ha studiato nelle migliori Università del mondo, da Bordeaux a Davies, hanno una longevità di appena 20-25 anni invece che 120, suoli morti, sapori senza intensità. Mi chiedo allora: è questo il progresso? Direi di no”.
Recuperare le conoscenze di una volta, in questo senso, è riscoprire “l’agricoltura tradizionale, che è quella che oggi viene chiamata biologica o biodinamica, un insieme di saperi che si tramanda da secoli, che in epoca moderna è stata semplicemente codificata, senza aggiungere nulla di nuovo. Oggi - continua Antonini - l’obiettivo reale è quello di ricostruire un sistema che funzioni e riporti i sapori, perché il problema principale è questo: al di là di costruire un mondo migliore, mangiare una pesca buona è diventato difficile, il 90% delle persone mangia frutta senza sapore, coltivata ed alimentata male, e questo vale ovviamente per l’uva. Quello che manca, ribadisco, sono i contadini: abbiamo dei bravissimi agronomi, ma è come avere degli ottimi architetti e non avere i muratori, l’esecuzione è importante come la progettazione. In enologia e viticoltura - conclude il wine maker - negli ultimi decenni non è cambiato molto a livello accademico: nelle Università, senza retorica, ci vorrebbero i contadini insieme ai docenti, sono loro gli artigiani del vino, ed in fondo il nostro lavoro è fatto di artigianalità e dettagli, cose che si imparano sul campo”.
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